di Alessandro D’Avenia
Mentre si è tutti catalizzati dalla lite da campetto di calcio tra due allenatori italioti, ero intento a considerare la reazione, giustamente costernata, dell’individuo globale, alla morte di alcune stelle del mondo artistico: Bowie, Rickman, Frey, Scola. Il ventaglio di reazioni tradisce un comune senso di orfanità: se vengono meno i padri fondatori dei simbolismi contemporanei ci sentiamo meno capaci di abitare il mondo. Allora cerchiamo di “immortalarli” a colpi di sentimentali resurrezioni digitali (sul twitter nostrano sembrava che tutti negli scorsi giorni fossero impegnati a vedere film di Scola). Ma come mai di fronte alle morti illustri siamo così sgomenti, e non ci siamo invece lasciati scalfire da altre morti quantitativamente ben più significative e ignorate dal cervello globale (vedi articolo sottostante dal Sole24ore)? In Italia nel 2015 si è verificato, per la prima volta dal 1917, un bilancio negativo tra nascite e morti, con una misteriosa impennata del numero dei deceduti (certo non saranno tutti bravi come Bowie, ma se li sommi, ad ascoltare bene, fanno più rumore). Motivi: crollo nascite, incapacità di far rimanere immigrati e giovani per mancanza di lavoro, impennata di morti (tutta ancora da spiegare).
L’Italia dal 2015 è ufficialmente un paese che muore. “I data sono tratti”, il Rubicone del cupio dissolvi è varcato. Non serve cominciare a enumerare le conseguenze di questa piramide rovesciata, in cui un Paese per vecchi graverà sulle spalle insufficienti di poche forze giovani (tra le quali mancano all’appello circa 100mila bambini abortiti ogni anno).
Sono dati simili a quelli delle guerre mondiali, ma li ignoriamo perché questa volta è tutto molto lieve e silenzioso, non c’è tutto quel rumore.
Eppur si muore.
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