di Giulia Blasi
Avevo forse dodici o tredici anni, la prima volta che un uomo mi ha messo le mani addosso in pubblico. Non l’ho mai raccontato a nessuno, né alla mia famiglia né ai miei amici, ma me lo ricordo molto bene: l’anno no, quello non me lo ricordo, ma il posto sì, e l’episodio anche. Camminavo sotto i portici che vanno dal Centro Studi di Pordenone (dove ho frequentato medie e superiori) a Piazza Duca d’Aosta, diretta all’ufficio di mio padre, che lavorava alle poste. È un tragitto breve, era ora di pranzo e io stavo, come tanti bambini, tornando a casa.
Ero sola e camminavo tranquilla, avrò avuto addosso le solite cose che avevo sempre, una felpa e un paio di jeans. Non avevo fretta e non avevo motivo di avere paura, Pordenone è un posto tranquillo dove non succede mai niente. Basta stare lontani dal “Bronx”, così sono chiamati i sottopassaggi del Centro Direzionale che allora ospitava un distretto sanitario: lì ci sono i tossici.
Incrocio un uomo. È basso di statura, tarchiato, faccia tonda e pizzetto. Quando siamo alla stessa altezza, lui sporge un braccio, dritto, e mi mette la mano sulla parte sinistra del torace, lì dove ci dovrebbe essere il seno ma non c’è perché ho forse tredici anni, la pubertà se la prende comoda facendomi crescere solo in altezza e comunque anche dopo non è che sarebbe cresciuto chissà che.
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