Imperversano i dibattiti – ma è un eufemismo chiamarli tali – sul gender. Dall’una e dall’altra parte ci si lanciano accuse volte a demonizzare la posizione opposta alla propria. Da una parte si parla di complotto per distruggere la famiglia, dall’altro si denunzia la critica all’omosessualità come omofobia. Di rado si cerca di capire che cosa esattamente voglia dire la cosiddetta teoria del gender.
Secondo Judith Butler, che l’ha “lanciata”, il linguaggio con cui si è sempre parlato di “uomini” e di “donne” ha avuto la pretesa di essere descrittivo di un dato naturale, mentre in realtà era quel tipo di linguaggio che gli studiosi chiamano “performativo” (dall’inglese performarce, “realizzazione”, “esecuzione”), la cui caratteristica è di far esistere, “dicendola”, una realtà che prima non c’era. Il «sì» degli sposi non è la constatazione di un legame giuridico che già esiste, ma lo fa nascere. E il «sei in arresto», detto dal poliziotto al ladro, crea ciò che asserisce. Sono solo degli esempi. Allo stesso modo, il parlare delle donne come “fragili”, “emotive”, “volubili”, “tenere”, etc., e degli uomini come “forti”, “violenti”, “coraggiosi”, etc., ha di fatto “creato”, secondo Butler, queste diverse identità. E non si è trattato solo di discorsi, ma di un’educazione sistematica, di una collocazione sociale e di un costume che ha fatto credere “naturali” certi attributi, collegandoli alla diversa struttura corporea come se ne fossero l’inevitabile risvolto.
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