di Marco Pappalardo
Quando frequentavo il liceo, ormai quasi vent’anni fa, cominciavo a prendere consapevolezza del problema legato all’uso delle droghe leggere e soprattutto non riuscivo a capire in cosa consistesse la “leggerezza” di una droga. In questi giorni, come accade periodicamente, ritorna il dibattito sulla liberalizzazione. Nasce sempre in ambito politico, passa attraverso i giornalisti, i medici e gli psicologi, l’opinione della gente per strada, i docenti, pochissime voci di chi si prende cura dei tossicodipendenti per riabilitarli, quasi nessuna di ex-tossicodipendenti.
Negli anni non ho mai smesso di avere a che fare con il mondo adolescenziale e giovanile, occupandomi di educazione in diversi contesti, e la mia consapevolezza si è allargata fino al rendermi conto che quello delle droghe leggere è un vero problema anche tra gli adulti che, poi in fin dei conti, sono i giovani di ieri!
Torna allora la questione della “leggerezza”: che “leggerezza” c’è in qualcosa che ogni volta ti ruba la personalità, altera le sensazioni, offusca la percezione della realtà, ti esalta e stordisce allo stesso tempo? La “leggerezza” è ciò che fa spiccare il volo con le ali, che fa prendere il largo a vele spiegate, che si mostra nella destrezza degli acrobati, nei passi di una ballerina, nel cadere di una piuma, nella carezza di un bambino, nello sfiorarsi degli innamorati. Certo chi assume droghe leggere magari ha pure qualcuna di queste sensazioni, forse persino di poter toccare il cielo con un dito, ma che senso ha quando avviene solo a causa di un agente esterno seppur naturale?
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