di Elisa Chiari
«Quando moriremo, ci sarà chiesto non quanto siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili». Sono parole trovate tra gli appunti di Rosario Livatino, il giudice ragazzino, ucciso dalla mafia a 38 anni il 21 settembre di 22 anni fa, parole riaffiorate alla memoria leggendo queste altre, dalla lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari: «Il peccato, anche per chi non ha fede, c’e’ quando si va contro la coscienza».
Scegliere qui di chiamare Livatino “giudice ragazzino” non è solo il modo di citare il bel libro omonimo di Nando Dalla Chiesa e di ricordare che era il più giovane dei 24 magistrati che alle regole del gioco hanno dato la vita, ma è anche il bisogno di non dimenticare la faccia meno nobile di questa medaglia: «Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto un concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta». (Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, 10 maggio 1991).
Quel ragazzino (forse) non era Livatino, ma avrebbe potuto esserlo. Le parole sono pietre a volte, ma lo si capisce sempre tardi.
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