di Roberto Colombo
Fino a trentacinque anni fa, il giorno di San Giuseppe gli italiani lo trascorrevano in famiglia e con gli amici. Le fabbriche, gli uffici e le scuole restavano chiusi. La festa è venuta meno agli effetti civili, ma non agli affetti di coloro che riconoscono nella figura esemplare di quest’uomo anche un segno del valore – un tempo si sarebbe detto, della nobiltà – del lavoro. Non una statua che fa bella mostra di sé nelle nicchie delle chiese o l’immaginetta infilata devotamente in un libro, ma un uomo che ha vissuto il lavoro per uno scopo, con un senso: sostenere la sua famiglia e far crescere suo figlio. Uno scopo più grande del lavoro compiuto, un senso (una direzione verso cui camminare e un significato da affermare) che nessuna fatica o ostilità può cancellare, come tanti padri e madri lavoratori dopo di lui e sull’esempio di lui hanno testimoniato.
Per Giuseppe il lavoro non era né un dovere da subire né un diritto da rivendicare. Era, piuttosto, un’occasione per affermare che la vita vale la pena di essere vissuta per la costruzione di un’opera più grande di sé, eppure capace di rendere ragione di bene, di avvalorare il sudore della fronte e della mente del proprio lavoro quotidiano. Non vi è lavoro umano che sia degno di se stesso, per quanto apprezzabili e desiderabili siano le sue condizioni, perché l’uomo non può essere strumento di nulla, neppure di un progetto di costruzione sociale, economica e politica fondata sul lavoro che perseguisse un «bene(ssere)» astratto, di tutti ma non di ciascuno, cioè non inerente alla vita concreta di ogni cittadino, dall’inizio alla fine della sua esistenza. Un progetto siffatto è una costruzione titanica che schiaccia, annienta l’irripetibile singolarità della persona in azione, dissolvendone l’unicità della sua vocazione lavorativa (riscattata dal gergo ecclesiastico, che ne ha ridotto la valenza antropologica universale: la parola ‘vocazione’ è la sola capace di portare alla luce il senso umano del lavoro). In Giuseppe, lavoro e vocazione coincidevano praticamente, non secondo la prospettiva stachanovista che esaurisce la vita nel lavoro, ma in quella della vita che diviene feconda, genera un’opera buona attraverso il lavoro.
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