di Stella Morra
La santità nell’esperienza cristiana è da sempre una faccenda politica: non solo e non primariamente nel senso deleterio, tipico di alcuni passaggi storici, di dichiarazioni di santità (e prassi di culto) strumentalizzate dalle logiche del denaro, del potere e del prestigio, ma prima e in modo più rilevante in senso veramente positivo. Si tratta infatti di una forma dell’espressione corporea e particolare in cui i cristiani, specie nella loro componente più popolare, assicurano la loro speranza che l’Evangelo non sia un’utopia (un sogno senza luogo), ma piuttosto una eu-topia, un bel luogo in cui vivere.
Una deformazione recente (e un po’ clericale…) degli ultimi due secoli ci induce una lettura in cui s’identifica santità con moralità e purezza. Ma – per fare un esempio radicato nell’immaginario benché privo di riscontro nei testi evangelici –: «Maria Maddalena diventa santa nonostante i suoi peccati o a causa dei suoi peccati? In verità la santità della Maddalena si misura meno per la sua purezza morale, ma molto di più per la sua capacità di diventare di nuovo innocente. E tale innocenza è bella. È bella perché è un’opera d’arte, l’arte di Dio (…) Se dovessi tradurre la parola kalokagathia, direi che sarebbe “innocenza ferita” (…) È l’innocenza di coloro che si trovano di fronte a una tomba anonima e tuttavia sperano le cose non viste. Tali speranze poi diventano note, segni che hanno riempito la Chiesa di musica, colori, arazzi, statue, dipinti, danza, teatro e mille altre forme fin dal suo inizio. È il segno di un’innocenza ferita. È il marchio della kalokagathia».1
Scopri di più da Pietroalviti's Weblog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
L’ha ripubblicato su Pietroalviti's Weblog.